Paolo, papà di Angelica

“Ciao Angelica,
Oggi, nella giorno in cui saresti dovuta nascere, mi voglio fermare un attimo e scrivere questa lettera per te che 100 giorni fa hai stravolto la nostra vita con il tuo arrivo.
25 settimane, 660 grammi, 30 centimetri, nascevi così, quasi all’improvviso, in una calda mattina d’estate. La nostra piccola, piccolissima bambina. Così è cominciata la nostra avventura, così lontana da quello che ci eravamo immaginati.
Il parto è stato assurdo: ti abbiamo vista e accarezzata di sfuggita, a stento piangevi come un gattino e poi sei stata immediatamente ricoverata presso il reparto di Terapia Intensiva Neonatale (TIN) dell’Ospedale di Rimini. Quando abbiamo potuto rivederti il tuo corpo, troppo esile per essere vero, era in un’incubatrice, circondato da tanti tubicini, fili e garzine eppure eri bellissima, luminosa e noi eravamo a nostro modo felici: la nostra bambina era viva, il tuo cuore batteva e respiravi praticamente da sola.
Sin dai primi attimi di vita sei stata una forza della natura, ci hai dimostrato cosa vuol dire che “niente è impossibile”, piena di tubicini ti nutrivi, ci guardavi, ci ascoltavi, ci stringevi un dito con quelle tue manine minuscole e consolavi le nostre lacrime con i tuoi piccoli gesti.
Io ti raccontavo le giornate fuori dalla TIN, la mamma tra una tirata di latte e l’altra era sempre al tuo fianco, ti leggevamo dei libri e non aspettavamo altro che un’infermiera ci comunicasse che era arrivato il momento della “marsupio terapia” per stringerti forte ai nostri cuori.
Ogni giorno un vortice di gioie, piccole conquiste e nuovi traguardi da porsi ma anche preoccupazioni, ansie e sofferenze ci travolgeva perché avere una figlia prematura ricoverata in terapia intensiva significa anche non poterti avere sempre al nostro fianco; significa non goderci la nostra bimba con quell’idea di famiglia che ci eravamo fatti perché in reparto ci può stare massimo un genitore alla volta; significa che i parenti e gli amici ti vedranno chissà quando; significa che ogni sera, dopo esserci tolti tutto quello che abbiamo indossato per poter entrare, ce ne torniamo a casa e lasciamo un pezzetto del nostro cuore in quell’incubatrice; significa che il viaggio di ritorno diventa leggero se bisogna festeggiare qualche grammo in più o qualche nuovo progresso, o pesante e muto se le terapie non funzionano, se ci sono complicanze, se non abbiamo potuto tenerti con noi; significa tornare a casa, anche se in realtà casa non è più il posto dove dormiamo ma è quell’ospedale, quel reparto, quella stanzina, proprio la tua stanzina Fisarmonica.
Significa che tutte le persone del reparto diventano la nostra seconda famiglia, ci fanno sentire accolti, non ci fanno mai sentire in mezzo e ci dedicano sempre il giusto tempo nello spiegarci tutto quello che sta accadendo con un linguaggio semplice nonostante la realtà di una TIN sia fatta di urgenze…
Significa che le tue infermiere diventano più di semplici infermiere, diventano delle seconde mamme sempre pronte a una carezza e una parola di conforto anche verso la mamma, sempre pronte a farci capire cosa ci può fare stare meglio, a spronarci nei momenti di difficoltà e a riempirci il cuore di gioia quando ci nascondono dei regalini nel cassetto dell’incubatrice.
Significa condividere la nostra avventura con gli altri genitori vicini di incubatrice; significa che quel vicino di incubatrice diventa un po’ anche figlio nostro; significa controllare continuamente che il saturimetro non suoni perché se suona c’è da preoccuparsi molto; significa avere la morte nel cuore quando il medico di turno ci dice “dobbiamo intubarla” e significa piangere di gioia quando, invece, dopo due settimane ci dicono “guardate cos’ha combinato vostra figlia?” e realizzare che respiri bene anche senza respiratore; significa alimentarti con il latte della mamma che stanca, stanchissima riesce a tirarsi la sera di ritorno dalla TIN, latte che andrà a finire nei tubicini che gli infermieri ti hanno infilato nel naso per alimentarti; significa sperare nell’ennesima trasfusione e in un altro ciclo di cortisone per renderti più arzilla e farti respirare meglio; significa pregare ogni giorno che tu prenda alcuni grammi, che il cuore e i polmoni stiano bene in modo da poterti finalmente portare a casa e mettere la parola fine a questa “strana vita” vissuta in reparto.
Tutto questo significa che la strada da percorrere è ancora lunga e che dovremo imparare a gestire la nostra quotidianità a casa dopo le dimissioni e spesso la paura prende il sopravvento.. ma non vince: la paura con i bambini prematuri non vince mai! La paura anche con noi non ha vinto, nonostante il percorso sia ancora lungo…
Oggi, per la prima volta mi guardo indietro, vedo la strada che abbiamo percorso, e tutto sommato non mi sembra poi così terribile, anzi forse mi piace, soprattutto per tutto l’amore e la gentilezza che la nostra storia ha messo in moto, facendoci diventare delle persone migliori, dei genitori migliori, degni di te, della nostra ormai grande guerriera.”

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